L’unica persona che mi rivolge parola nel palazzo dove abito a Budapest è il figlio del vicino, un giovanotto sempre sull'attenti e con la tendenza a sopravvalutare le mie capacità. Il ché non mi disturba affatto. Oggi mi ha chiesto se ho combattuto in Russia e, in caso affermativo, se ho mai ucciso un uomo. Mi sfugge ancora per quale strano meccanismo della sua mente bambina, ma il piccolo Martin è convinto che io sia russa e a quanto pare anche abbastanza anziana da aver vissuto la seconda guerra mondiale, nonostante sia ben più giovane di sua madre e piuttosto mediterranea, per non dire italiana. Ogni volta che ci vediamo mi chiede se sono sempre “Claudia Neni” (Neni è come i bambini ungheresi tendono a chiamare gli adulti diversi dai genitori, ma si usa anche per le signore anziane) e io, che in effetti non ho ancora cambiato nome, annuisco e gli chiedo se lui è sempre Martin. Lui mi guarda perplesso e risponde che sì, certo, quello è il suo nome. Faccio domande stupide, non posso dargli torto.
Per diverso tempo Martin mi ha assegnato il ruolo di muratore e su quello non si poteva discutere, ne aveva le prove.
“No, Martin, Claudia Neni non lavora nel cantiere, smettila!” ha tentato di correggerlo il padre, un trentenne con cui ho un buon rapporto, ma che non abita più con la moglie e non lo dico per sbandierare i fatti loro, ma per spiegare che non conta come vicino che mi rivolge la parola. “Invece sì: l’ho vista uscire da lì!” ha spiegato Martin, indicando una direzione precisa con il dito. Vicino a dove abitiamo c’è il cantiere di un nuovo complesso in costruzione, un mostro di cemento da ottomila appartamenti, per farvi capire che sono tanti. Il relativo invadente cantiere è entrato nelle vite di tutti noi che abitiamo nell’isolato, assumendo il ruolo di una sottile linea tra la vita e la morte con cui ci confrontiamo ogni giorno. Sottile un piffero, tra parentesi. Occupando per intero il marciapiede, infatti, costringe i passanti pigri, cioè tutti, a camminare sulla strada, che per comodità è stretta e percorsa dal filobus. L’alternativa sarebbe attendere il verde al semaforo e usare il marciapiede dall’altro lato, per poi attraversare di nuovo dopo una ventina di metri. Una sbatta cui ci si può sottoporre di domenica o nel recarsi ad un appuntamento con quell’amico simpatico come una Bibbia caduta sul piede dallo scaffale più alto; altrimenti mai si ha il tempo e la voglia di attendere, meglio rischiare un frontale con un bell’autobus rosso fiammante. Una mattina, finita la solita corsa, stavo facendo stretching usando la ringhiera accanto al cantiere, come da mia abitudine prima che iniziassero questi apprezzati lavori. Il piccolo Martin è passato in sella al triciclo, insieme alla madre con la carrozzina e l’altra creatura ancora in fasce, e mi ha vista fare qualcosa di incomprensibile come allungare un muscolo femorale, vicino a una betoniera: sono inequivocabilmente un muratore. Devo aver fatto qualcosa di male, perché quando era più piccolo ero un vigile, anche se lui adesso non se lo ricorda. Mi vide infatti mentre aiutavo un amico a parcheggiare davanti casa, così per un po’ di mesi sono stata una spartitraffico. Il giorno dopo mi chiese se poteva parcheggiare il triciclo sul terrazzo che condividiamo, aspettandosi forse di trovarci una multa quando l’avrebbe ripreso pochi minuti dopo.
Devo precisare che a volte non capisco cosa mi dice Martin, perché il mio ungherese non è tanto sofisticato e lui è un giovane di grande cultura, che già un anno fa usava verbi per me avanzati come “ammanettare”.
Devo precisare che a volte non capisco cosa mi dice Martin, perché il mio ungherese non è tanto sofisticato e lui è un giovane di grande cultura, che già un anno fa usava verbi per me avanzati come “ammanettare”.
Oltre alle lunghe conversazioni con Martin, che tra poco compie quattro anni, ho altre interazioni con i miei vicini, se ci penso meglio. Il padre di famiglia al pianterreno abita proprio sotto di me con tanto di consorte e bambini piccoli che non crescono mai e piangono sempre come il primo giorno. Attribuisco il ghigno che mi riserva ad ogni incontro all’estrema vicinanza del suo soffitto con il mio pavimento. Una volta mi ha brevemente spiegato cosa pensa di me venendomi a bussare alle undici di sera solo perché non apprezza gli Smashing Pumpinks a tutto volume di notte. Nemmeno i Metallica e no, neanche qualcosa di più soft tipo Samuel and Garfunkel. La storia sarebbe lunga e ricca di episodi, ma per ora la tengo per me, mi scalda il cuore.
Ci sono altresì nel condominio persone che riconoscono la mia esistenza e mi salutano in modo più o meno cordiale, ma non mi parlano. Di questi uno non parla proprio, il mio dirimpettaio, che è nel contempo quello con cui ho stretto il miglior rapporto di vicinanza. Un signore con i capelli a caschetto grigi e un poco unti, che per quello che ne so è muto: non l’ho mai sentito fiatare nemmeno con la signora appaiata, presumo la moglie. Una volta sono andata a chiedergli uno scaleo e lui mi ha risposto a gesti. Sono abbastanza sicura che non fossero quelli ufficiali, anche se non conosco il linguaggio dei segni, per cui non credo sia muto, solo non parla. Più.
Succede. La parola non è come fumare, dopo un po’ che smetti di articolarla ti si atrofizza qualcosa, oltre a seccartisi la gola, ed è difficile tornare a parlare. Invece se smetti di fumare riprendere è proprio facile. Forse il mio dirimpettaio ne sa qualcosa, lui fuma, per questo lo vedo tanto, fuma nel cortile, davanti alla sua porta, di fronte alla finestra della mia cucina, nella sua tuta d'acetato blu. D’estate si porta fuori una rivista, spesso quelle che immagino siano delle parole crociate o forse è sodoku, ma non mi pare il tipo. Allora fuma un po’ più lentamente, poi rincasa. Ogni volta che è lì e io sto rientrando, uscendo o guardando fuori dalla finestra della cucina dove a volte siedo a lavorare, mi saluta. Per quello dico che abbiamo un bel rapporto: lui mi ha sempre salutata, sempre. Anche quando lo incontro per strada, perché, sì, il signor dirimpettaio esce a fare le spese di casa, sempre con un sacchetto di plastica che tiene già spiegato anche quando sta andando e non ha comprato ancora niente. Mi sembra sempre che sia qualcosa dentro il sacchetto che immagino si porti per fare la spesa. Forse dentro ci sono tutte le parole che non ha usato quel giorno e in realtà prima di andare il supermercato va a vendere a un contrabbandiere di parole o a qualche scrittore poco ispirato. In testa potrebbe avere storie bellissime, che nessuno ha sentito mai.
Ci sono altresì nel condominio persone che riconoscono la mia esistenza e mi salutano in modo più o meno cordiale, ma non mi parlano. Di questi uno non parla proprio, il mio dirimpettaio, che è nel contempo quello con cui ho stretto il miglior rapporto di vicinanza. Un signore con i capelli a caschetto grigi e un poco unti, che per quello che ne so è muto: non l’ho mai sentito fiatare nemmeno con la signora appaiata, presumo la moglie. Una volta sono andata a chiedergli uno scaleo e lui mi ha risposto a gesti. Sono abbastanza sicura che non fossero quelli ufficiali, anche se non conosco il linguaggio dei segni, per cui non credo sia muto, solo non parla. Più.
Succede. La parola non è come fumare, dopo un po’ che smetti di articolarla ti si atrofizza qualcosa, oltre a seccartisi la gola, ed è difficile tornare a parlare. Invece se smetti di fumare riprendere è proprio facile. Forse il mio dirimpettaio ne sa qualcosa, lui fuma, per questo lo vedo tanto, fuma nel cortile, davanti alla sua porta, di fronte alla finestra della mia cucina, nella sua tuta d'acetato blu. D’estate si porta fuori una rivista, spesso quelle che immagino siano delle parole crociate o forse è sodoku, ma non mi pare il tipo. Allora fuma un po’ più lentamente, poi rincasa. Ogni volta che è lì e io sto rientrando, uscendo o guardando fuori dalla finestra della cucina dove a volte siedo a lavorare, mi saluta. Per quello dico che abbiamo un bel rapporto: lui mi ha sempre salutata, sempre. Anche quando lo incontro per strada, perché, sì, il signor dirimpettaio esce a fare le spese di casa, sempre con un sacchetto di plastica che tiene già spiegato anche quando sta andando e non ha comprato ancora niente. Mi sembra sempre che sia qualcosa dentro il sacchetto che immagino si porti per fare la spesa. Forse dentro ci sono tutte le parole che non ha usato quel giorno e in realtà prima di andare il supermercato va a vendere a un contrabbandiere di parole o a qualche scrittore poco ispirato. In testa potrebbe avere storie bellissime, che nessuno ha sentito mai.
Gli altri che nel palazzo mi parlavano hanno tutti tirato il calzino in questi anni, a parte un paio di miglior sorte che per loro fortuna si sono trasferiti. Questa frase mi ricorda terribilmente l’Olocausto, forse dovrei tagliarla.
Ps: quelle nelle foto sono case a caso. Qualsiasi riferimento a persone, fatti, parole o cose realmente esistite è dovuto al fatto che sono realmente esistite.
Ps: quelle nelle foto sono case a caso. Qualsiasi riferimento a persone, fatti, parole o cose realmente esistite è dovuto al fatto che sono realmente esistite.
Ciao Claudia, mi permetto di darti del tu per andare controtendenza con Martin, ovvero con il suo credo che tu sia una anziana russa. Scherzi a parte, ti leggo con interesse da un po'Sono Csilla, ungherese di Budapest con 26 anni di Italia alle spalle.
RispondiEliminaUn piccolo appunto, o meglio correzione lingiustica.
'Neni' si usa in riferimento solo di persone di sesso femminile. Per quello maschile si dice 'bacsi'
Vedo che ti impegni molto nel vivere Budapest per questo ho pensato di contribuire al tuo miglioramento linguistico.:)
Ciao Csilla! Leggo soltanto ora, non so perchè, ma grazie mille per la tua correzione!
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