L'ho fatto: ho lasciato Milano. E ve lo scrivo così, su due stivali, mentre la metro gialla transita tra Montenapoleone e Turati e un tipo dalla vocale e aperta all'inverosimile parla all'auricolare cercando convincere qualcuno ad acquistare qualcosa, dove l'uno non penso sia suo cugino e il "lcosa" presumo corrisponda a qualcosa di più costoso di un chilo di finocchi.
Ripeto, ho lasciato Milano. E da quando l'ho fatto vi trascorro piu' tempo di quando ci abitavo ed accettavo quasi qualsiasi incarico o invito mi portasse fuori dalla contro-Urbe. Infatti ora sono qui, a Milano, ma non ci vivo. Stamani ho corso al Parco Lambro, ieri sera ai giardini Indro Montanelli, domani chissà. Quel che è certo è che mercoledì stavo correndo in un altro bel posto che si chiama Parco degli Eroi e non è in questa regione.
Affinché possiate capire sono d'uopo delle spiegazioni, se non d'altro almeno dell'esempio dei finocchi, così fuorviante per il lettore italiano avvezzo ad associare il termine all'omosessualità per ragioni che siete liberi di spiegarmi o di tenervi per voi se non siete generosi. Ho tirato fuori i finocchi intendendo i vegetali, perchè da poco ho scoperto che mi piacciono, anche lessi.
Prima non li gradivo e non credo di averli mai mangiati se non in punta di dente, per assaggiare. Così mi son trovata con un debito ultravennale di discriminazione verso questa verdura, che sto cercando di ripagare. Come? Mangiandone a ogni occasione: crudi, in insalata, spruzzati d'aceto e accompagnati da pane abbrustolito, nello yogurt, sul gelato, mischiati a pezzetti nel sacchetto delle patatine, in infuso e, ovviamente, inzuppati nel cappuccino. Li porto anche al bar, vedeste le facce! Intuisco un certo sconcerto e forse anche una certa ostilità verso un uso improprio del caffè, ma sono una tartaruga e me lo concedono. Il punto è che non lo faccio di proposito. Capirete bene che ho sviluppato una dipendenza e finché non apriranno negozi di finocchi di plastica da masticare per liberarsi dal vizio, ne sono soggetta. Vi racconto questo non solo perché amo dilungarmi su dettagli inutili e inventati, ma per annunciarvi che mi sono trasferita verso un luogo preciso, dove ho constatato l'introvabilità dei finocchi che tanto amo. Credo non abbiate indovinato e allora ve lo dico: sono tornata a Budapest. Siccome lì i finocchi (finocchio in ungherese si dice édeskömény, cumino dolce, ma un sacco di magiari sembrano ignorare questa parola) non ci sono devo venire in patria almeno due volte al mese per consumarne e farne incetta.
Trasportare valige piene di finocchi è insolito e mi si confà, ma ammetto sia una ragione poco credibile per viaggiare di continuo tra Italia e Ungheria.
La mia ossessione mi ha pertanto costretta a creare una motivazione migliore, cui ho accennato nel poscritto del precedente intervento su questo blog. Ho accettato una borsa di studio, anche se mi servirebbe almeno una valigia, e iniziato un master che si tiene a Milano due volte al mese, nel fine settimana. Le tartacronache non muoiono, dunque, al più si arricchiscono.
Vi ho mai parlato di Budapest? Solo poco fa con quest'assurda faccenda dei finocchi di contrabbando? Bisognerà che rimedi. Per ora vi mostro il primo effetto del mio ritorno in Ungheria, quello sulla mia testa, frutto dell'incontro con Norbi, un parrucchiere fantastico cui cade tutto di mano come a me e che per 10 euro mi ha reinventato, offerto un cappuccino alla simpatia ("Dillo pure che a te che sei italiana questo fa schifo") e ricoperto di complimenti. Andrò sempre da lui. Forse.
P.s: il cappuccino in questione è stato in seguito denunciato all'Autorità di Vigilanza sul Caffè e Affini per uso indebito della denominazione cappuccino. Condanna all'ergastolo.
Prima non li gradivo e non credo di averli mai mangiati se non in punta di dente, per assaggiare. Così mi son trovata con un debito ultravennale di discriminazione verso questa verdura, che sto cercando di ripagare. Come? Mangiandone a ogni occasione: crudi, in insalata, spruzzati d'aceto e accompagnati da pane abbrustolito, nello yogurt, sul gelato, mischiati a pezzetti nel sacchetto delle patatine, in infuso e, ovviamente, inzuppati nel cappuccino. Li porto anche al bar, vedeste le facce! Intuisco un certo sconcerto e forse anche una certa ostilità verso un uso improprio del caffè, ma sono una tartaruga e me lo concedono. Il punto è che non lo faccio di proposito. Capirete bene che ho sviluppato una dipendenza e finché non apriranno negozi di finocchi di plastica da masticare per liberarsi dal vizio, ne sono soggetta. Vi racconto questo non solo perché amo dilungarmi su dettagli inutili e inventati, ma per annunciarvi che mi sono trasferita verso un luogo preciso, dove ho constatato l'introvabilità dei finocchi che tanto amo. Credo non abbiate indovinato e allora ve lo dico: sono tornata a Budapest. Siccome lì i finocchi (finocchio in ungherese si dice édeskömény, cumino dolce, ma un sacco di magiari sembrano ignorare questa parola) non ci sono devo venire in patria almeno due volte al mese per consumarne e farne incetta.
Trasportare valige piene di finocchi è insolito e mi si confà, ma ammetto sia una ragione poco credibile per viaggiare di continuo tra Italia e Ungheria.
La mia ossessione mi ha pertanto costretta a creare una motivazione migliore, cui ho accennato nel poscritto del precedente intervento su questo blog. Ho accettato una borsa di studio, anche se mi servirebbe almeno una valigia, e iniziato un master che si tiene a Milano due volte al mese, nel fine settimana. Le tartacronache non muoiono, dunque, al più si arricchiscono.
Vi ho mai parlato di Budapest? Solo poco fa con quest'assurda faccenda dei finocchi di contrabbando? Bisognerà che rimedi. Per ora vi mostro il primo effetto del mio ritorno in Ungheria, quello sulla mia testa, frutto dell'incontro con Norbi, un parrucchiere fantastico cui cade tutto di mano come a me e che per 10 euro mi ha reinventato, offerto un cappuccino alla simpatia ("Dillo pure che a te che sei italiana questo fa schifo") e ricoperto di complimenti. Andrò sempre da lui. Forse.
P.s: il cappuccino in questione è stato in seguito denunciato all'Autorità di Vigilanza sul Caffè e Affini per uso indebito della denominazione cappuccino. Condanna all'ergastolo.
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