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"Turista (a caso) per dieci minuti" O "Ghiaccio 82"

Oggi è arrivato il momento di fare mio uno di quegli esperimenti sociologici che in quanto tali sono validi se considerati come generatori di aria fritta* (NB: se ti metti a leggere le note, o meglio la nota, giacchè di una sola si tratta,  non leggi il resto, pensaci dopo). Devo premettere che mi irritano i turisti, anche tu, quando fai il turista, sappilo che mi irriti. Purtroppo il turismo non è solo una scelta di villeggiatura irresponsabile, omologata e nociva per le destinazioni di tutto il mondo, ma anche una malattia a diffusione endemica. Ciò implica che, presto o tardi, spesso o di rado, tutti siamo turisti, proprio come alle volte tutti, o quasi, siamo raffreddati, infetti, assetati o molesti. Capita a chiunque e non c’è da prenderla alla leggera, perché quando ti coglie un attacco di turismo, volontario o forzato dai familiari, diventi a buon diritto parte della comunità più insopportabile del mondo. Bene, ora che ho espresso con toni moderati la mia lieve intolleranza, posso raccontare cosa ho fatto stamane. Ho deciso di diventare turista per un giorno e di farlo mentre andavo a lavorare. Posto che non sono una guida e nemmeno mi occupo di testare gli alberghi, è cosa nota, ma non a te forse, che il mio mestiere consiste principalmente nel prendermi beffe del prossimo. Pagano bene: per la cronaca, esiste un fondo abbastanza cospicuo destinato alla suddetta funzione nel bilancio del "Ministero delle Cianfrusaglie, Chincaglierie e Perdite di Tempo. Una di quelle cose che resistono alla crisi economica perché fanno sembrare la situazione meno grave; come le luci natalizie, uguale uguale. Ebbene, devi sapere che per andare a lavorare sono solita passare da coacervi di turisti. Una condanna che mi è stata destinata ben prima del Giudizio Universale, ma che suppongo sia una sorta di contrappasso retroattivo a punizione del mio odio per i gruppi di visitatori dall’estero. Tale ingiunzione mi ha portata per mia fortuna a lavorare senza alcun merito né requisito in luoghi come, cito in ordine sparso:

  • cantiere sotto la torre Eiffel (durata dell’impiego, giorni uno. Avevano sbagliato nome e io non so stendere l’asfalto);
  • piazza del Duomo a Firenze (durata: mesi otto. Niente di straordinario, ho fatto un tirocinio da quelle parti, guadagnando poco ma spendendo un sacco di soldi nel negozio di vestiti lungo la strada. Era economico, ma io ho comprato tutto quello che avevano. Adesso, c’entro niente io, è chiuso. Il tirocinio me lo sono accaparrata per ragioni misteriose spiegabili solo con l’intercessione divina. Ebbi l’occasione di intervistare diversi personaggi famosi, tra cui uno che ora fa il presidente del consiglio ma all’epoca no, ci faceva e basta);
  • statua della Sirenetta a Copenhagen (durata: mesi due. Avevo finito la borsa di studio Erasmus e comunque non ero riuscita nella missione assegnatami. Il caffè è una brutta bestia, se non lo smacchi subito, e la signorina se n’era rovesciata una caffettiera intera addosso, sperando poi che bastasse l’acqua di mare a farla tornare del suo bel color statua.);
  • piazza del Duomo a Milano. Mi soffermo un attimo su questo perché è evidente che dovevo averla fatta grossa in un qualche giorno nella vita precedente per meritarmi un simile supplizio. Vero che la calca è anche peggiore a Firenze, dove hai pure gli ambulanti che scappano dalla pulizia a intervalli regolari, ma almeno ti conforta il panorama. A Milano hai una bella architettura, una piazza grande e il cuore che ti si ghiaccia sotto il sole dell’allegria di turisti, ma soprattutto sotto l’astro lucente della superiorità. Dei milanesi. (durata dell’impiego: mesi 6, sufficienti a ripristinare l’equilibrio cromatico della piazza. II livello di bianco è infatti rientrato nei parametri a norma europea grazie all’azione di contrasto dei miei vestiti neri. Altra posizione per cui pagano benissimo);
  • una stella (durata dell’impiego: 125 anni. Lucidatura di parte della superficie di piccolo corpo astrale denominato "Trasparente Virtù a Caiano” (traslitterazione dall’idioma ufficiale dell’Universo 26). La stella, avendo visto i natali di Treschend Mal, signore supremo della curva nord dello stadio dello Sporting Ipotenusa, è visitata ogni giorno da 3 milioni di turisti (stima, 2014) provenienti dai 18 pianeti attigui della Galassia Via Ipocondriaca. Ovviamente quando ho accettato l’incarico pensavo si trattasse di una stella sul pavimento di una di quelle città che vogliono copiare la “Walk of Fame” di Hollywood, magari un paesino sfigato dove non va nessuno, oppure Rimini. Pensavo pure di metterci poco, e invece.

Eravamo rimasti a quando questa mattina mi recavo a fare il mio dovere di onesta contribuente e ho deciso di immedesimarmi in una turista, invece di dimostrare in tutti modi, e con astio, di non esserlo. Armi deposte, sorriso disteso. Niente bomber con scritte tipo: “Vivo qui da oltre tre anni”, “No, non voglio pranzare, sono le nove di mattina”, “Bella dillo a tuo figlio, che l’ho visto ieri sera e sembrava indeciso sul suo futuro”. Occhiali da sole, non ho paura di indossarvi anche se all’ombra dei palazzi non ci vedo un cavolfiore. Cammino convinta, talmente decisa che supero l’ufficio e finisco tra le fauci del peggior ristoratore di Budapest, uno che non è un ristoratore, ma un "cattura persone" prezzolato e brizzolato, al soldo ora dell’uno, poi dell’altro gestore di locande e birrifici. Mi chiede se vorrei una palinka. Attimo di terrore. Rifiutare una palinka significa non solo condannare la propria giornata alle peggiori catastrofi, ma inimicarsi la popolazione tutta per almeno un trimestre. D’altronde posso mica buttare giù un superalcolico di prima mattina, prima ancora del caffè, perché poi mi decade la cittadinanza italiana così tutto d’un tratto. Alla fine la cosa migliore è essere sinceri, così gli rispondo in spagnolo, giacchè così si era rivolto lui a me, e gli dico che sì certo, volentieri, ma deve offrirmene due perché sono incinta. Ripeto in inglese perché non ha capito e sulle prime acconsente, poi ci riflette meglio e dice che è meglio di no, poi mi fa gli auguri e mi saluta, aggiunge anche "viva Brazil" che me lo dicono spesso e non so bene per quale motivo. Andata.
Mi riavvicino all’edifizio (sì) e la sento. Eccola lì: Stereotipa 29, l’idolo delle nuove generazioni. Occhiale da sole - ce li pure io, ma i suoi sono fighi - capello resistente ad acqua, ferro, fuoco e difterite, sciarpa di lana anche oggi che sono quaranta gradi (se ti metti in forno) e orecchini più grandi delle orecchie. Inizio a contare, uno, due, tre, quattro e…arriva, eccola!
“Oh, guarda, er museo der ghiaccio! Hai visto? Stamo a entrà?”
(traslitterazione dal coatto misto all’italiano dei nostri giorni: “Andrea, dai un’occhiata nella direzione in cui guardano i miei occhi che non hai mai visto perché tengo ‘sti cosi anche a letto: c’è il museo del ghiaccio! Lo vedi? [sottintende: Hai ancora il dono della vista, tu che sfidi le nuvole girando a occhi nudi? ] Entriamo?”).

L’esperimento mi ha dato ben più soddisfazione del previsto ed è da ripetere. Giusto per chiarezza, non esiste il museo del ghiaccio, non a Budapest, non nel quartiere dove lavoro io. C’è un bar che si chiama “Ice” qualcosa ed è ampiamente pubblicizzato, non so cosa uno possa andarci a fare di mattina visto che il suo prodotto di punta è la Vodka finlandese, comunque, benché ospiti dei cimeli - nel numero di UNO, fotografabile - non è un museo.


NB: Avvertenza: la lettura delle note può portare via tempo e non aggiunge niente all’economia del discorso contenuto nel post.
*In questo senso consiglierei tali esperimenti sociologici a chiunque necessiti di confezionare ingenti quantità di aria fritta a getto continuo. A chi, mi chiedo dunque, forse ai paninari, visto che di solito vendono pure le patatine: l’aria fritta come alternativa all’olio? Ho dei dubbi, devo documentarmi, prima di tutto per sapere se è una strada praticabile (l’aria fritta frigge? Va considerato che l’olio frigge anche da fritto, ma è consigliabile utilizzarne sempre di nuovo, almeno a casa mia, poi so perfettamente che la federazione “Uniti per il Langos” mi darebbe addosso in un modo incredibile se dicessi una cosa simile nella loro lingua, che per la cronaca è l’ungherese, dove l’Ungheria è un Paese dell’Europa continentale, orientale o forse centrale, c’è un sempiterno dibattito su questo, quindi ve la vendo così: continentale. Concedimi una digressione: da piccola pensavo che continentale volesse dire “in grado di reggere la pipì”, perché avevo imparato la parola “incontinente” ed essendo all’epoca dotata di un’intelligenza strabiliante ma un poco ingenua, credevo che davvero la grammatica italiana seguisse una qualche logica. Poi ho capito che no, non la segue, e ho smesso anche io. Di seguire la logica. Ora, siccome i neonati sono notoriamente incontinenti e potrebbero ammetterlo senza vergognarsene, sapessero parlare, pensavo che per trovare un uomo degno di starmi al fianco dovessi cercare un “continente”. Nessuno dei miei coetanei (andavo all’asilo ed erano tutti maschi, tranne me e altre due fortunate), tuttavia, rispondeva di sì alla domanda “sei un continente?”. Una storia triste, me ne rendo conto.

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